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IX Domenica Tempo Ordinario, Santissima Trinità

Misericordioso (רַחוּם raḥûm), è un aggettivo derivato dalla radice semitica rḥm, che indica “grembo materno”. Il verbo rḥm significa “amare”, “commuoversi”, “intenerirsi”, impietosirsi”, “provare compassione, pietà, affetto”. Nella Bibbia ebraica il soggetto del verbo רחם (rḥm),  è nella maggior parte dei casi Dio, e il destinatario dell’azione indicata da questo verbo è Israele. L’aggettivo רַחוּם (raḥûm) è un predicato del soggetto e, in alcuni casi, ricorre in una catena di altri termini per indicare Dio, come nella prima lettura di oggi (Esodo 34):

“Il Signore, il Signore, Dio misericordioso (רַחוּם) e pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6). La misericordia appartiene alla natura di YHWH, e la sua scomparsa può essere immaginata solo con il crollo delle leggi della natura. Questo aggettivo è uno dei titoli di Dio che risuona nel relazionarsi di Dio con le persone semplici e deboli, motivo per cui la richiesta della misericordia di YHWH appartiene al repertorio fondamentale della preghiera nell’Antico Testamento.

Gesù, nel dialogo con Nicodemo, afferma che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (v. 16). Sta a ciascuno di noi accettare questo dono del Padre e credere o meno al Figlio. L’amore di Dio per noi è “dolce, generoso e fedele” come l’amore di una madre che desidera che la vita che porta nel suo grembo si sviluppi in tutta la sua pienezza.

Domenica di Pentecoste A

Mandare (שׁלח šālaḥ), questo verbo in ebraico significa anche “inviare”, “stendere, ad es. una mano”, “spedire”, “mandare via”, “lanciare”. Nella Bibbia greca, il verbo שׁלח (šālaḥ) è più spesso tradotto come αποστέλλω. Nell’Antico Testamento ricorre nella formula dell’invio di un profeta o di un liberatore, come per esempio il mandare Mosè in Egitto, da parte di Dio, per liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù (Es 3,10).

Nell’odierno Salmo responsoriale (Sal 104), il complemento del verbo שׁלח (šālaḥ) è רוּחַ (rûaḥ) – lo Spirito di Dio: “Quando togli loro il respiro, languiscono e si trasformano in polvere. Li crei quando mandi (שׁלח) il tuo Spirito e rinnovi la faccia della terra” (vv. 29-30). Il soggetto del verbo שׁלח (šālaḥ) è invece Dio che “manda” il suo Spirito. Il Salmista non indica il luogo dove Dio invia il suo Spirito, ma sottolinea l’effetto di questo atto: «tu rinnovi la faccia della terra». Si suppone quindi che lo Spirito venga inviato sulla terra per rinnovarla. Nella versione originaria del Salmo, dietro la parola “rinnovare”, si nasconde il verbo ebraico בָּרָא (bārā), che significa “creare”. Dio, inviando il suo Spirito, “crea” costantemente nuova vita sulla terra, dove morte e vita si susseguono in un ciclo perenne.

Nel Vangelo di oggi (Gv 20,19-23), Gesù Risorto alita sui discepoli riuniti nel Cenacolo dicendo: “Ricevete lo Spirito Santo” e li invia a perdonare i peccati: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Possiamo notare il cambiamento del verbo in questa frase per indicare il mandato. Prima Giovanni usa il verbo αποστέλλω e poi πέμπω. Entrambi questi verbi significano “mandare”, ma c’è una differenza: il primo sottolinea il rapporto che c’è tra il mittente e l’inviato, in questo caso tra Gesù e il Padre che lo ha mandato, il secondo verbo indica più la missione affidata e il messaggio che l’inviato deve trasferire. La missione della remissione dei peccati è opera di Dio, e l’accettazione della remissione è un’ascesa alla vita nuova, che Dio, amante della vita, ci dona costantemente di nuovo. Non è una mera continuazione della nostra esistenza, ma la nostra esistenza riceve la partecipazione alla vita stessa di Dio.

Ascensione del Signore A

Ascendere (עלה ʽālāh) questo verbo significa anche “entrare”, “volare in alto”, “salire”, nella coniugazione hifil “innalzare”, “sollevare”, “tirare fuori”. Nel linguaggio comune, עלה (ʽālāh) nella coniugazione qal significa soprattutto uno spostamento verso l’alto. In un contesto specifico, עלה (ʽālāh) può assumere sfumature di significato molto diverse, ma sempre è da intendere come passaggio da una posizione inferiore ad una superiore. Spesso il verbo è usato in senso figurato, come quando qualcuno si reca da una persona altolocata.

Nell’odierno Salmo responsoriale (Sal 47), la radice ʽlh ricorre tre volte in momenti strategici: all’inizio (v.3) nella forma dell’aggettivo “altissimo”, al centro (v.6) come verbo “salire” e alla fine (v.10) anche nella forma verbale nifal “essere il più alto”, quindi “altissimo”. L’intero Salmo sembra ruotare attorno ad un movimento ascendente che richiama il simbolismo di una teofania trionfante che è metafora della glorificazione. Essendo un movimento ascendente dalla terra al cielo, è un segno della trascendenza di Dio. Va ricordato che il Mistero pasquale si esprime come “esaltazione” negli scritti giovannei e negli inni paleocristiani. Perciò la croce, nel Vangelo di Giovanni, è l’esaltazione gloriosa di Gesù, che dalla croce, come da un trono, regna sul mondo dei salvati. Non dimentichiamo che la Pasqua cristiana è suggellata con l’Ascensione di Gesù, cioè l’ingresso nella gloria del Padre. Questa gloria si diffonde su tutta la terra.

Nel Vangelo di questa domenica (Mt 28,16-20), Gesù risorto incontra i suoi discepoli su un alto monte della Galilea e li invia in missione di predicare e battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo , in base all’autorità che fu data a Gesù: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra, perciò và e insegna…». La sua assenza è solo apparente, perché è un altro tipo di presenza di cui lui stesso ci assicura: “Ed ecco, io sono con voi sempre, fino alla fine del mondo”.

VI Domenica di Pasqua A

Potenza (גְּבוּרָה geḇûrâ) deriva dalla radice gḇr e significa fortezza, potere, dominio, possanza, autorità, potestà, ma anche valore, audacia, energia, efficacia, prodezza. Oltre alla forza fisica, questo sostantivo denota anche il potere di Dio, le sue opere potenti e meravigliose e anche la forza morale dell’uomo. La personificazione del potere nei tempi antichi era il re. La potenza di Dio, che supera ogni forza e potere umano, si estende a tutte le epoche e si manifesta attraverso il suo essere eterno, attraverso le sue opere e azioni potenti, e attraverso la legge e la giustizia. La magnificenza del suo potere si rivela, quindi, nella sua azione. La potenza di Dio è associata anche allo Spirito di Dio, lo Spirito di saggezza, intelligenza e consiglio (Is 1,2; Pr 8,14; Gb 12,13). Il nome di Dio si identifica con la Sua גְּבוּרָה (geḇûrâ).

Nell’odierno Salmo responsoriale (Sal 66), che celebra le grandi opere di Dio, leggiamo: “Egli cambiò il mare in terra ferma, passarono a piedi il fiume. Per questo in Lui esultiamo di gioia! La sua potenza (גְּבוּרָה geḇûrâ) regna per sempre” (vv.6-7). Questi due versi dell’inno al Signore che ha mostrato la sua potenza, richiamano, attraverso la memoria di “mare” e di “fiume” due eventi: la traversata del Mar Rosso nella notte di Pasqua e la traversata del Giordano all’ingresso nella terra promessa. Queste parole sono la confessione di fede del Salmista nella potenza di Dio. Va ricordato che le profondità del mare sono nella Bibbia il simbolo del male. Se Dio conduce gli Israeliti attraverso il mare, significa che il suo potere è più grande di questo elemento e della realtà che simboleggia. Il Signore Dio, e solo Lui, ha il potere di portarci sani e salvi attraverso i pericoli della vita, e quindi possiamo fidarci della Sua presenza e della Sua azione.

Nel Vangelo di questa domenica (Gv 14,15-21), il Signore Gesù promette ai suoi discepoli il Consolatore, lo “Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce”, perché non lo accoglie. Secondo l’evangelista Giovanni, il mondo non conosce e non vede l’azione di Dio, così come non vede la presenza di Gesù. La fede è il modo per conoscere e sperimentare la potenza di Dio nella nostra vita. È la fede che ci apre gli occhi per vedere l’opera di Dio in noi e nella nostra vita. È grazie alla fede che possiamo dimorare nel Signore Gesù e con Lui nel Padre e sperimentare il suo amore.

V Domenica di Pasqua A

Opera (מַעֲשֶׂה maʽǎśeh), in ebraico, deriva dalla radice עשׂה (aśh), che significa “agire”, “fare”. Questo sostantivo assume un significato teologico nella Bibbia quando il suo soggetto è Dio. L’azione di Dio può essere espressa anche dal sostantivo “opera” (מַעֲשֶׂה maʽǎśeh) quando si riferisce all'”opera di Dio”.

Nell’odierno Salmo responsoriale (Sal 33), il Salmista loda il Signore per le sue opere: «tutte le sue opere sono sicure, perché ama la giustizia e l’equità, la terra è piena della sua grazia». Si tratta quindi dell’azione di Dio, che ispira fiducia per il modo in cui opera. La traduzione greca di questo versetto del Salmo è: πάντα τὰ ἔργα αὐτοῦ ἐν πίστει (Sal 33,4), usando la parola ἔργον (ergon) per tradurre le “opere”.

È da notare che la stessa parola ἔργον (ergon) è usata dall’evangelista Giovanni quando Gesù dice: «Il Padre dimora in me, Egli solo compie queste opere» (v. 10). L’azione del Signore Gesù è l’azione del Padre ed è l’espressione della loro relazione e comunione. Allo stesso modo, le nostre azioni parlano di ciò che abbiamo nel cuore, di ciò che ci abita. Possiamo conoscere la “paternità” dalle nostre azioni, ma dobbiamo anche stare attenti a quali ispirazioni ci apriamo, cosa o chi è la forza trainante dietro le nostre azioni.

IV Domenica di Pasqua A

Pastore (רֹעֵה rō ̔ ēh), in ebraico questa parola è il participio del verbo רָעָה “pascolare”, quindi significa “pascolante”. Questa parola deve essere completata: pascere chi? che cosa? Non c’è pastore senza il gregge che custodisce e cura.

Nel Salmo responsoriale dell’odierna Liturgia della Parola (Sal 23), il Salmista dice: “יְהוָה רֹעִי” (YHWH rōʽî) che letteralmente significa “YHWH [è] mio pastore”. È una confessione di fede. L’autore riconosce che YHWH, il Signore, Dio di Israele è il suo pastore e nessun altro. Il pastore si prende cura di tutto il gregge, ma ogni pecora può chiamarlo “רֹעִי” (rōʽî), il mio pastore. Tutto si svolge sotto la sua cura e nulla accade al di fuori di lui, per questo nella seconda strofa del Salmo l’autore presenta l’immagine dello stare gioioso alla presenza del Signore, che prepara per l’orante la mensa abbondante, il calice traboccante di vino e l’olio con cui lo unge – simboli di ospitalità e di pienezza di vita. Vale la pena osservare che questa scena si svolge “in presenza dei nemici del Salmista”, che non possono in alcun modo nuocergli, per la presenza di YHWH.

Il Vangelo di questa domenica (Gv 10,1-10) ci dice che il pastore entra nell’ovile per la porta,  solo il ladro vi entra con altra via. Due volte in questo brano Gesù dice di sé: “Io sono la porta delle pecore”. Tutto è nelle Sue mani, nulla accade al di fuori del Suo spazio. Egli è sia il Pastore che la Porta dell’ovile, e “ladri e briganti” non vi hanno accesso. Gesù è la fonte della pace e della sicurezza, per questo Egli dice di sé che è venuto, perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza.

III Domenica di Pasqua A

Tomba (שַׁחַת šaḥaṯ), questo sostantivo in ebraico significa anche “fossa”, “trappola”, “mondo dei morti”, “distruzione”, “annientamento”. Il verbo derivato da questa radice significa “distruggere”, “annientare”. La parola שַׁחַת (šaḥaṯ) indica la “fossa” in cui viene catturato l’animale selvatico. Nella Bibbia, la parola è usata più spesso metaforicamente e si riferisce all’esperienza umana del fallimento, all’immagine di qualcuno che scava una buca sotto qualcuno ma poi ci cade dentro lui stesso, all’immagine di una trappola in cui qualcuno si è trovato. La parola שַׁחַת (šaḥaṯ), come “un fossato” da cui non c’è uscita, è un’immagine della “tomba” e dello “sheol”.

Questo è il significato della parola ebraica שַׁחַת (šaḥaṯ) nell’odierno Salmo responsoriale (Sal 16,9-10): “Per questo si rallegra il mio cuore ed esulta la mia anima, e il mio corpo riposerà al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi e non lascerai che il tuo fedele veda la fossa.” Letteralmente: “Non permetterai al tuo giusto (חֲסִידְךָ ḥǎsîdkā) rimanere nella tomba”. È questo Salmo citato da S. Pietro nel suo discorso del giorno di Pentecoste, quando parla della risurrezione di Gesù, che Dio ha risuscitato, rompendo i legami della morte, perché era impossibile per Lui esserne dominato, secondo la profezia di Davide: “Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra non posso vacillare…, il mio corpo riposerà al sicuro, perché Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né permetterai che il Tuo Santo subisca la corruzione (שַׁחַת šaḥaṯ).

Nel Vangelo di oggi (Lc 24,13-35), Gesù risorto incontra i discepoli in cammino verso Emmaus e chiede loro di cosa parlano lungo il cammino. Allora i discepoli, non sospettando di parlare con lo stesso Risorto, gli raccontano ciò che era accaduto a Gerusalemme, che i capi del popolo Lo avevano ucciso e crocifisso, e invece loro si aspettavano che fosse Lui a liberare Israele. Inoltre, sono rimasti sconvolti da alcune donne che si sono recate al sepolcro al mattino e hanno trovato la tomba vuota e hanno avuto una visione di angeli che affermavano che Egli era vivo.

È proprio il “sepolcro vuoto” di Gesù che è il segno della sua risurrezione e ci apre la via per risorgere dalla tomba nella nostra risurrezione. In senso figurato, la parola שַׁחַת (šaḥaṯ) compare molte volte nella nostra vita quotidiana, disseminata di “insidie” e “fosse” che introducono situazioni gravi nella nostra vita. È da tali situazioni che il Signore ha il potere di liberarci, condurci fuori e, come aggiunge il Salmista, indicarci il cammino della vita e donarci la gioia piena al Suo fianco.

II Domenica di Pasqua A

Signore (יהוה YHWH), corrisponde in ebraico alla parola אָדוֹן (ādōn), che però viene usata per la pronuncia del Nome di Dio Io sono colui che sono, rivelato a Mosè (Es 3,14) ed espresso con il tetragramma YHWH. Infatti, per rispetto di questo nome, gli ebrei non lo pronunciarono, ma lo sostituirono con la parola אֲדֹנָי (ǎdōnay), che significa “mio Signore”.

I versetti del Salmo responsoriale dell’odierna Liturgia della Parola, tratti dal Sal 118, lodano Dio per aver manifestato la sua potenza e divenuto Salvezza per Israele: “Venni spinto con forza perché io cadessi; ma il Signore è venuto in mio aiuto. Mia forza e mio canto è YHWH (il Signore), egli si è fatto salvezza per me” (w. 13-14).

Al v. 22 leggiamo parole che sono profetiche di Gesù: “La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare. Questo è stato fatto dal Signore, ed è meraviglioso ai nostri occhi”. È Gesù la pietra scartata, ma il Signore ha mostrato la sua potenza e mediante la risurrezione di Gesù dai morti ne ha fatto la pietra angolare, cioè quella che sostiene tutto l’edificio, motivo per cui l’apostolo Tommaso nel primo incontro con il Risorto confessa “Mio Signore (κύριός μου) e Dio mio!”.

Le parole greche κύριός μου (Gv 20,28) sono la traduzione del nome di Dio che è nascosto nell’ebraico YHWH. Dobbiamo anche notare che Kyrios, o Signore, è il titolo dei discepoli del Risorto, e che le parole “Gesù è il Signore” furono uno dei primi credi cristiani.

Pasqua: Risurrezione del Signore

Destra (יָמִין yāmîn), è un termine che si trova nella maggior parte delle lingue semitiche. Ricorre 139 volte nell’Antico Testamento e nell’uso di questo sostantivo incontriamo tre diversi significati: 1) quello più comune è “destro/destra” (lato o mano), applicato alla mano assume il significato di “forza” o “potenza”; 2) a volte la parola si riferisce al punto cardinale “sud” che, guardando verso il sole, si trova a destra; 3) raramente significa “lato buono e favorevole”. Poiché la “mano destra” (יָמִין yāmîn) è legata all’azione umana, “alzare la mano destra” significa rafforzare la propria forza. Quando YHWH afferra un uomo per la mano destra, significa che lo rafforza. YHWH, con il suo braccio potente, rafforza la mano destra di Mosè, dandogli così un grande aiuto (Is 63,12). Sin dai tempi antichi, יָמִין (yāmîn) è stato spesso usato come immagine poetica di “energia”, “forza” e “potenza”.

Nella Bibbia, יְמִין יְהוָה “la mano destra di YHWH” significa semplicemente “la forza e il potenza di YHWH”. Questo termine compare nel Salmo responsoriale dell’odierna Liturgia della Parola (Sal 118,16): “La destra del Signore ha compiuto  meraviglie, la destra del Signore si è elevata. Non morirò, anzi vivrò e proclamerò le opere del Signore”. Questo Salmo, riportato nella Liturgia, è la risposta alla prima lettura degli Atti degli Apostoli (At 10). Pietro, parlando in casa di Cornelio, il centurione di Cesarea, racconta la risurrezione di Gesù di Nazaret: “Questi è colui che hanno ucciso appendendolo a un legno. Ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno, ha voluto che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni da Dio prescelti, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (At 10,39-41).

Il Vangelo di oggi è il racconto della scoperta del sepolcro vuoto da parte di Maria Maddalena, Pietro e il discepolo amato (Gv 20,1-9). Quando questo discepolo e poi Pietro entrano nel sepolcro vuoto, vedono al suolo le bende di lino nelle quali era avvolto il corpo di Gesù, deposto dalla croce. Ora le bende giacevano completamente intatte, cioè non srotolate, ma il corpo di Gesù non era in esse. L’evangelista Giovanni dice che quando il discepolo amato entrò nel sepolcro e vide le bende, “vide e credette”. Credette e comprese le Scritture che dicevano che Egli doveva risorgere dai morti. Nel mistero della risurrezione di Gesù si compiono anche le parole del Salmo 118: “La destra del Signore ha compiuto  meraviglie, la destra del Signore si è elevata. Non morirò, anzi vivrò e proclamerò le opere del Signore”.

BUONA PASQUA! ALLELUIA!

Domenica delle Palme A

Dare (נָתַן nātan), nell’ebraico biblico, è un verbo con una gamma di significati incredibilmente ampia. La parte preponderante riguarda il gesto del tendere una mano per deporre un oggetto in un determinato luogo o per passarlo ad un’altra persona, a pagamento o gratuitamente. Il risultato dell’azione descritta dal verbo נָתַן (nātan) è permanente e definitivo. Tra i suoi molteplici significati possiamo citare, oltre a “dare”, “donare”, “porre”, “collocare”, “consegnare”, “affidare”, “depositare”, “rendere”, “restituire”.

La prima lettura di oggi (Isaia 50,4-7), tratta dal libro del profeta Isaia, è l’inizio del terzo canto del Servo sofferente di YHWH, presentato non tanto come un profeta, ma come un saggio, un fedele discepolo del Signore, inviato per istruire sia i pii che gli smarriti. Il Servo del Signore, dal canto di Isaia, non fugge dalla sofferenza, ma come dice lui stesso: «Presentai (נָתַן nātan) il mio dorso a quelli che mi percuotevano, le mie guance a quelli che mi strappavano la barba. Non nascosi la mia faccia agli oltraggi e agli sputi» (v.6). Il Servo del Signore non solo non fugge dalla sofferenza, ma nemmeno la sopporta passivamente. Con la forza della propria volontà e pazienza, consapevolmente “dà” (נָתַן nātan) la propria schiena e le proprie guance a coloro che lo picchiano. La ragione di questo comportamento del Servo del Signore non è il suo coraggio, ma la certezza che Dio lo sostiene, gli presta soccorso e quindi non è confuso (cfr v. 7).

La descrizione della sofferenza del Servo del Signore evoca la descrizione della passione del Signore Gesù secondo l’evangelista Matteo, che leggiamo oggi durante la Liturgia della Parola: “Allora lo assalirono. Gli sputarono in faccia, lo picchiarono con i pugni e lo schiaffeggiarono” (Mt 26,67) e ancora “gli sputarono addosso e lo colpirono con una canna sul capo” (Mt 27,30). L’atteggiamento del Servo sofferente, che “dà” (נָתַן nātan) le spalle a chi lo percuote e le guance a chi gli strappa la barba, è presagio profetico dell’atteggiamento di Gesù, che nel Vangelo di Giovanni afferma con enfasi: “Per questo il Padre mi ama, perché io do la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la do da me stesso. Ho il potere di darla e ho il potere di riprenderla. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,17-18).

Sia l’atteggiamento del Servo sofferente, che l’atteggiamento del Signore Gesù non sono un segno di pace stoica, ma derivano da un profondo rapporto con Dio, dalla fiducia nel suo aiuto e da un completo affidamento in Lui. Per questo la contemplazione della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù ci fa in modo toccante renderci conto che, come dice il profeta per “le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).